Estratto da “Atti della Società Storica del Sannio”
Anno VII – Fascicolo I – gennaio - aprile 1929
Ristampa Anastatica a cura di Edizione Torre della Biffa e A.G.M. Editoriale Poligrafica – Cappaloni (BN) – pp.48 - 53
Sulla leggenda della vipera longobarda e delle streghe”
Sac. Gaetano Cangiano
XVII
Chi non ha letto la festevole lettera del Redi, (1626-1694, o 97, 98), dove si racconta l'avventura del «Gobbo da Peretola ? “In tutte le antologie si trova e tutti, grandi e piccoli, se ne sollazzano, facendone le spese Benevento.
Ma, a quanti di costoro, dei grandi voglio dire e dei grandi, che si piccano di letteratura e di un po' di storia e di critica; a quanti mai è surto il dubbio, che quella lettera non sia proprio una creazione del cervello del Redi, ma una leggiadra imitazione del racconto, stampato e pubblicato da tale, o da tale altro beneventano ?
Pietro Piperno espone il caso seguente:
Casus II. De Gibboso vi Daemonis mutatu in arenationem, seu ante pectus in convivio Nucis Beneventanae Mag.,
che rechiamo in italiano.
Un gobbo, per nome Lamberto Alutari, da Altavilla, colà fallito e pieno di debiti, se ne venne a Benevento, dove viveva sicuro da molestie. Dopo alcun tempo, smanioso di rivedere moglie (1),
(1) Una donna si era innamorata della sua gobba!
figli e paese suo, partì di notte, alla volta di Altavilla, la vigilia della festa del Corpus Domini. A due miglia appena di cammino, in una pianura, presso il fiume Sabato, vide grande accozzaglia di uomini e di donne, che ballavano e che cantavano: “Ben venga il giovedì e il venerdì” . Credendoli mietitori, si accostò loro e cantò, seguendo il ritmo e rispondendo: « E lo sabato e la domenica ». Piacque a tutti la facezia e anche il gobbo, benché estraneo ad essi, entrò in simpatia. E ballò con una di quelle donne, che aveva afferrata a caso. Terminati i balli, si radunarono tutti sotto un' alta, grande e spaziosa noce, non lungi dal fiume, dov'erano apparecchiate delle mense, cariche di succulenti vivande. Egli, o perché aveva fame, o perché aveva voglia di divertirsi, andò il primo a sedersi a mensa. Di subito, sentì alla schiena un dolore vivissimo: fu un attimo. Il diavolo, con arte e celerità sua propria, appianando di dietro, gli toglieva la gobba e gliela elevava sul petto. Invocò allora: “O Gesù, o Vergine 'Maria! “. E a un tratto, sparirono tutti e tutto. Si accorse di avere avuto a che fare con le streghe: e, senz'altro, si rimise in viaggio, deplorando in cuor suo di dover portare innanzi quella mole, che prima portava alle spalle. Giunge a casa verso l'aurora e picchia alla porta. La moglie, donna onesta, atterrita, domanda: Chi è il temerario, che bussa ? Quegli, a mezza voce, risponde: Sono il tuo Lamberto. La voce sembra alla donna quella del marito; ma non sa capire, perché abbia a venire a quell'ora, propizia alla cattiva gente. Si leva di letto e si fa alla finestra. Al lume di luna, veduto l'uomo senza la gobba di dietro, si dà a gridare, chiamando parenti e vicini e nello stesso tempo butta giù, contro il marito, un mortaio, che guai a lui, se l'avesse colto. Quegli, di sotto, a urlare: Son Lamberto; t' inganni; son qui, apri; ti dirò tutto, apri; sta zitta ! Finalmente, essendogli aperta la porta, entra in casa e alla moglie e agli accorsi parenti fa il racconto della sua avventura sotto la noce di Benevento. Più tardi poi, andando in giro per il paese, non era conosciuto più dai suoi creditori, che lo sapevano con la gobba di dietro. Dopo i giorni di festa, fa ritorno a Benevento, mutato da quello di prima e più sicuro.
Si è creduto necessario di esporre, e ci si perdoni, se in volgare, la novella del Piperno, ch' è sconosciuta dalla maggior parte dei beneventani. Le bone ragioni ci sono, a favore di essi. Il libro è divenuto molto raro ed è ignoto ai più fino il nome dell'autore; il quale non è di quelli, un po' antichi, che, scrivendo acconciamente in italiano, sono oggi chiamati classici, ottenendo bella rinomanza di sé e un posticino nelle antologie, che riportano alcun brano, in prosa, o in versi, a saggio del loro valore e a imitazione dei giovanetti. Scrisse il Piperno in latino: e fu peggio per noi, che se avesse scritto in italiano. Imperocché, in quella lingua dei dotti, ch'era la lingua officiale, bisognava comporre dei libri, se si voleva essere sicuri, che i dotti stranieri ne prendessero interesse. Dall' ottocento se n' è smesso 1' uso; ognuno scrive nella propria lingua e chi capisce, capisce: nel caso, soccorrono le traduzioni, quando se ne fanno.
Sulla magia e sulla stregoneria dettarono in latino Spina, Ghirlando, de Castro, Rategno, del Rio e cento altri, che ci arrecarono il danno secondo, col ripetere e propagare le stoltissime dicerie dei nostri, che, così, il primiero danno ci fecero. Non diversamente da quegli autori si diportò il Piperno, con 1' aggravante, ch' era beneventano. E non è a dire, che non sia stata allora conosciuta la sua favola, né qui, né altrove. Qui e altrove, anzi, conosciutissime, la sua non solo, ma molte, che si dicevano qui avvenute e riferite da molti scrittori; tanto, da dovere egli terminare la narrazione con questa tristissima espressione, che dimostra l'insania generale della stessa gente colta:
Casus hi sunt multi apud nos, & Scriplores plures, quos brevitate omittimus.
Che ridda di gobbi a Benevento ! Dovevano costoro piovere da ogni banda: e, mercé gli scriptores plures, acquistare una poco invidiabile celebrità per sé e rendere sinistramente famosa la città, che li avrebbe ospitati.
XVIII
Par manifesto, che il Piperno abbia dato il materiale al Redi. Ben poteva questi aver avuto conoscenza dal beneventano della faccenda del gobbo d'Altavilla, pubblicata prima del 1640, indi in quest'anno e poi nel 1647 la terza vota, giacché egli indirizzava la sua lettera da Firenze al dott. Lorenzo Bellini, Pisa, a dì 25 gennaio 1688, una cinquantina d'anni dopo e forse più. Dava il suo “Gobbo da Peretola” che può considerarsi il fratello minore del “Gobbo da Altavilla”. Non trascriviamo la piacevole lettera, scoppiettante di umorismo e di motti arguti, tanto essa è comune e comunemente letta.
Le somiglianze si veggono nei due racconti: il gobbo, il luogo, il noce, i diavoli, le streghe, il ballo, l'ora notturna, tutto è identico nell'uno e nell'altro; anche un po' il risultato, con qualche differenza, che il Redi, ha impressa nel suo. Quello d'Altavilla una ne aveva di gobba e una gliene rimane; se non che, la gobba muta di posto. Quello da Peretola una ne aveva, che gli rimane alle spalle, dov' era e sul petto gli viene attaccata la gobba del suo compagno, a cui fu tolta e conservata a parte dalle streghe. Differenze di particolari, puramente accidentali. E chi ci assicura, che 1' affare delle due gobbe al malcapitato peretolano sia invenzione esclusivamente del Redi ? (1). Le parole: Casus hi sunt multi apud nos, & Scriptores plures, nascondono e, nello stesso tempo, rivelano tante cose.
(1) Ha trovato il suo imitatore, dopo duecentoventidue anni, anello lui, nell' autore di una poesiola allegra, apparsa nell' almanacco dell’ “Apostolato della preghiera” del 1910. È intitolata “Il ballo delle streghe, ovvero il Gobbo di Peretola”.
Ne diamo soltanto il principio e la fine.
Di Peretola dal suolo
tutto solo
parte il Gobbo e va contento
invocando sotto voce
l' alto Noce
che si trova a Benevento.
di sua gobba in compagnia
per la via,
. dopo tanto al noce arriva.
Allor con un gomitolo
di spago ed una setola
le streghe a suon di zuffolo
attaccano un batuffolo
al gobbo di Peretola.
Rinvoltato nel pastrano
sovra il piano
il gobbetto ai ridesta
e imbrattato di terriccio
colte il riccio
sporge fuori la sua testa.
Per lavarsi e farsi bello
va al ruscello
chiaro e terso come un vetro:
mira e vede il poveretto
sul suo petto
una gobba... e l'altra dietro • .
Da Dante, fino ai tempi nostri, tutti dunque gli scrittori, siano essi storici, novellieri, inquisitori, professionisti, poeti, che si sono occupati e si occupano di Benevento e del serpente, di Benevento e del diavolo, di Benevento e del noce e delle. streghe, non ripetono, né più, né meno di quello, che hanno appreso dalla leggenda e da quei nostri, che ne hanno scritto e ne hanno favellato. Si eccettuano, tra i professionisti, solo quei pochi medici, i quali, nell' epoca in cui si cominciò a dubitare della verità di ogni sorta di racconti di stregonerie e si prese a difendere l'innocenza delle presunte streghe, che nessun commercio avevano mai avuto col demonio, consideravano e studiavano i casi, che dicevansi di stregoneria, siccome manifestazioni patologiche, di forma e di natura isterica.
Un poema di CCXXXII sonetti, detto « Il Fiore », dopo lungo dubitare, oggi si attribuisce all' Alighieri. Nel sonetto CCIII si leggono i versi seguenti:
“Il diavol sì ti ci ha ora menato:
se mi trovasti a l'altra volta lento,
or sie certan eh'i' ti parrò cambiato.
Me' ti varria che fossi a Benivento”
Ci vuoi tempo ancora per venire alle streghe e al noce. È nel XV secolo, che san Bernardino da Siena, in una sua predica, racconta di un conciliabolo di streghe a Benevento. Contemporaneamente a lui ci saranno stati dei simili narratori; ma, prima di lui, non crediamo, fuorché, ben s'intende, beneventani.
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