1952
- 13 novembre
LA NOSTRA INCHIESTA SUI MINATORI IRPINI
REGIME DA CASERMA AD ALTAVILLA NELLE MINIERE DI ZOLFO DELLA S.A.I.M. - I MANIFESTI ELETTORALI SUI MURI DEL PAESE - LE PREOCCUPAZIONI DEL COMANDANTE CAPONE - LA PSEUDO COMMISSIONE INTERNA NON RICONOSCIUTA DAI LAVORATORI
(Federico Biondi. Dal quotidiano ”l’UNITA’”- Giovedì 13 novembre 1952)
ALTAVILLA, novembre.
Appena si sbuca nel bel corso centrale di Altavilla, dopo essersi inerpicati per la mulattiera ripida e tortuosa riattata alla meglio, che dalla stazione conduce al paese, si prova ancora oggi, a distanza ormai di sei mesi la sensazione di essere in piena campagna elettorale. Sui muri delle vecchie abitazioni che, da data immemorabile non vedono una cucchiaiata di calce che di tanto in tanto serva almeno a sanare le piaghe più evidenti del tempo, appaiono ancora disseminati dovunque, fin sopra i balconi delle abitazioni, i manifesti di grosso e piccolo taglio, proprio come i biglietti della Banca, d’Italia, con la stella e corona o lo scudo crociato, alternate a grosse scritte inneggianti al Comandante Capone candidato monarchico al Consiglio provinciale.
Sul conto di questo illustre personaggio circola oggi nel paese la voce secondo la quale, per non essere da meno del suo maggior collega napoletano, cui ha effettivamente il comando di una flotta, sia pure mercantile, egli sarebbe da qualche tempo in qua febbrilmente occupato a trasformare le miniere della SAIM - in cui si calcola che possegga almeno il 50% delle azioni – in una vera e propria caserma, ove gli sia poi lecito comandare a 600 minatori, come a bei soldatini borbonici del buon tempo antico. Ciò, naturalmente, col concorso di uno sparuto gruppo di ufficiali subalterni e caporali, pronti ad ogni ardire e bravi soprattutto nel tradimento e nella delazione ai danni dei propri compagni di lavoro e che nel comune gergo sindacale portano la qualifica di rappresentanti dei Sindacati Liberi. Ma qui il discorso ci porterebbe assai oltre. Torniamo dunque alle nostre prime impressioni che ora già si dileguano ad un più largo contatto con gli uomini e le cose di questo paese. Le elezioni sono infatti un episodio ormai lontano e, direi, quasi circoscritto dalla stessa volontà degli abitanti, la maggior parte dei quali vorrebbe oggi poter cancellare il ricordo di tanti brogli ed inganni, di false promesse e lusinghe, che in un clima di corruzione, di intimidazioni e di abiezione morale, resero facile il successo di uno dei più tipici rappresentante della classe capitalistica nostrana, retriva e spregiudicata allo stesso tempo.
Sui volti dei minatori che mi son visti passare accanto, a volte taciturni, a volte occupati a discutere fra di loro, forse dei turni di lavoro o del numero di carrelli carichi di zolfo che ciascuno di essi ha mandato fuori, alla luce del sole, dalle viscere della terra in una giornata di estenuante lavoro, appaiono chiari i segni della stanchezza, che più spesso è sofferenza e tristezza. Quando ho potuto avvicinare alcuni di essi e diffondermi poi a parlare e a chiedere di tante cose che potevano interessare il loro lavoro ed i problemi grossi e piccoli della loro esistenza, ho compreso come ciò che rattrista e rende dura l’espressione di questi lavoratori è in primo luogo una preoccupazione sempre più viva circa l’avvenire loro e la sicurezza del pane per i loro figli.
Oggi le miniere della S.A.I.M.di Altavilla, come quella di Di Marzo della vicina Tufo, lavorano a pieno ritmo, grazie ad una situazione internazionale del mercato dello zolfo eccezionalmente favorevole. Eppure i minatori di Altavilla non possono contare su alcun vantaggio che derivi per essi da questo stato di cose e vedono invece solamente aggravata e sempre più preoccupante la loro attuale situazione.
Questo è quello che mi diceva uno dei più anziani fra essi, raccomandandomi nello stesso tempo di non fare il suo nome sul giornale: un vecchio minatore dallo sguardo comprensivo e ancora vivace; aveva avvertito le mie intenzioni e non voleva disilludermi. Mi avrebbe detto tutto: della vita della miniera, delle questioni sindacali che ogni giorno si pongono qui con maggiore urgenza, di ciò che i suoi compagni pensavano circa un possibile sviluppo della produzione mineraria della zona e della responsabilità che i padroni della SAIM si sono addossate nell’allontanare tali possibilità; ma non voleva che le sue rivelazioni gli fossero costato il posto nella miniera che occupa da più di 35 anni. E nel dirmi ciò mi ricordava il destino di altri suoi compagni di lavoro, i più attivi organizzatori sindacali, i più coraggiosi e capaci, buttati fuori dalla miniera non appena il tradimento di alcuni ben noti funzionari liberini avevano reso possibile il ritorno di un regime poliziesco all’interno della SAIM e l’imposizione di una pseudo-commissione interna, con una chiara funzione di copertura degli interessi padronali e non riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei lavoratori.
Mentre vado raccogliendo per alcune corrispondenze i frammenti di questa conversazione, ho dinanzi a me una copia del giornale “Roma” del 16 luglio scorso che in quell’epoca credetti utile conservare come un esemplare esempio di servile ottusità e di brutale cinismo allo stesso tempo. Polemizzando con una precedente nota dell’”Unità” in merito al licenziamento di 41 operai della SAIM avvenuto appena all’indomani delle elezioni amministrative, un ignoto articolista, dopo aver tentato di dimostrare che in fondo la Direzione aveva in ogni caso mostrato una grande magnanimità se non aveva proceduto al licenziamento dell’80% dei dipendenti, avvalendosi di un apposito accordo stipulato presso il Ministero del Lavoro, concludeva naturalmente con l’accogliere come giusti quei licenziamenti, perché in sostanza la responsabilità ed il movente di essi andavano attribuiti all’ “odio di classe che si va fomentando e che serve a trasformare vecchi, ottimi lavoratori in pessimi elementi sobillatori”!
Ecco dunque da fonte non sospetta pienamente riconosciuto il carattere arbitrario di quei licenziamenti, il fine della rappresaglia e della persecuzione contro onesti lavoratori, ai quali è rimasto solo il coraggio per difendere i propri diritti, apertamente confessato, il ricorso ai metodi fascisti impudentemente invocato.
Ma non è di questo argomento che vogliamo ora occuparci. Va solo necessariamente ricordato che “l’Unità”, traendo allora spunto da quei licenziamenti, aveva inteso soprattutto richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sullo sviluppo crescente di un ingiustificato stato di crisi nel settore minerario della nostra provincia, risorsa industriale pressochè unica in un’economia poverissima ed arretrata. Oggi gli elementi rivelatori di tale crisi – come cercherò di chiarire - in una corrispondenza successiva - vanno accentuandosi in modo sempre più preoccupante ed impongono finalmente la mobilitazione di tutte le forze produttive della provincia, ed in primo luogo delle categorie lavoratrici direttamente interessate, per fare uscire dalla stagnazione e dal progressivo decadimento un settore economico di vitale importanza per l’Irpinia.